Censis 2018; l’incubo italiano. Si ma come risvegliarsi?

Non che le precendenti relazioni del CENSIS sullo “stato della nazione” fotografassero un giardino dell’Eden.

Ma quella di quest’anno è particolarmente a tinte fosche.

Tanto da far parlare il Direttore dell’autorevole Istituto di “un sogno italiano trasformatosi in un vero e proprio incubo”. La chiave di lettura di un “umor nero” nazionale non più soltanto percettivo ma entrato nel profondo del nostro tessuto sociale, viene affidata al sommarsi di due ”cocenti delusioni”.

Quella per una ripresa che aveva lasciato a ben sperare ma che, dopo 12 trimestri ininterrotti, con lo sciagurato 2018 si è totalmente arrestata e comincia a retrocedere assumendo una parabola recessiva. E quella per un “cambiamento” su cui, lo scorso 4 marzo, gli italiani avevano puntato “tutta la puglia” e che, oggi, sta manifestando tutta la sua dimensione inconcludente e mistificatoria (al netto dei miliardi buttati dalla finestra).

Il combinato disposto delle due delusioni avrebbe portato a un sentimento diffuso di totale sfiducia nel futuro con tutta la carica autodistruttiva che un simile mood porta con sè.

Coniugata, poi, con un “sovranismo” divenuto fattore squisitamente psicologico, la pozione umorale, secondo il Censis, è diventata venefica. Le predicazioni, le parole d’ordine, la propaganda “sovraniste” se, da un lato, si sono rivelate per quello che sono ovvero una paccotiglia confusa e velleitaria che, messa alla prova dei fatti, si è sgonfiata come un palloncino, dall’altro hanno scavato nel profondo della psiche collettiva. Radicandosi anche in quella individuale. Gli italiani, non potendo seriamente sperare in una rediviva nazione sovrana, sono diventati dei sovranisti di se stessi. Ognuno portatore di un suo minuscolo regno da difendere dai potenziali invasori, oppressori, regolatori ecc.

A parere della relazione è un andazzo che, nel breve periodo, non può che condurre dal rancore già sedimentato nelle società (quello che lo scorso 4 marzo aveva messo le ali ai 5stelle) a una vera e propria cattiveria diffusa.

Quella tipica di chi vive il proprio declino come irreversibile. E, senza alcun orizzonte da prospettarsi, non riesce e non può fare altro che trovare un colpevole. Saremmo, dunque, nel pieno della parabola biblica del “capro espiatorio”. Il più immediato è, ca va sans dire, l’extracomunitario. L’invasore che “viene trattato meglio degli italiani” e si gode la “pacchia” alle nostre spalle. La più parte delle travolgenti fortune politiche dell’astro salviniano sono state costruite sulla proiezione ossessiva di questa tematica. Metodologia assai efficace. E non è questa la sede per rimarcarne il cinismo e la disonestà. Semmai i limiti e l’insidia fondamentale: non sarà mai abbastanza. Venendo al medio termine la prognosi del CENSIS assume contorni decisamente apocalittici. Quando non basterà più il capro espiatorio straniero e la disillusione sul “paese dei balocchi” promesso dal governo del cambiamento avrà travolto gli odierni imbonitori, il paese non punterà di certo al ritorno all’ancien regime (quale, poi?) ma si spingerà direttamente sul baratro oscuro dell’abisso.

Testuali parole: “sarà pronto al salto nel buio”. Insomma: si salvi chi può.

Di fronte a uno scenario di tale cupezza è inevitabile che il pensiero vada ai fantasmi di quel novecento da cui non siamo mai realmente usciti. Che succede in un paese straziato dalla crisi economica, dilaniato nel suo tessuto sociale da fenomeni diffusi di rigetto della modernità, in cui le cose “non possono che peggiorare”? La domanda si autopone come retorica e due sono le date che vengono in mente “all’impronta”: 1922 e 1933.

Historia magistra vitae.

Sarà, ma io non credo all’ineluttabilità di questa prospettiva e al suo tetragono determinismo. E se proprio vogliamo fare un parallelo con il “secolo breve”, terrei comunque buono il 1933. Ma non quello di Monaco e Berlino. Bensì quello di New York e Washington. Non la “resistibile ascesa” delle camice brune. Ma il “new deal” di Roosvelt. Invece di baloccarsi con le profezie che si auto avverano, ritengo che il primo dovere di chi può dare un apporto al dibattito pubblico nostrano sia quello di indicare una via nello spirito di ciò che spinse quel grande uomo a immaginare un corso nuovo per una Unione che, dopo il 1929, era davvero sull’orlo del baratro. E, se non di indicarla, quanto meno di affermare che può esistere.

Io sono certo che esista. Non passa da ricette semplici. E, soprattutto, non passa da illusioni palingenetiche come quelle puerilmente servite agli italiani in questi anni di ubriacatura demagogica. Quando, come tutte le sbronze (anche le più moleste), questa sarà passata la vera sfida sarà non prendere in giro, ancora una volta, il paese. E fargli capire che non esistono soluzioni semplici, rapide ed indolore. L’Italia “senza futuro” che viene dipinta dal CENSIS è senz’altro un incubo. Rincondurre il paese a un principio di realtà è l’unico modo per risvegliarsene.

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