Il vuoto politico italiano che nessuno si cimenta a riempire.

Si vuole che in politica viga, con assoluto rigore, una legge fisica per cui uno “spazio vuoto” viene inesorabilmente riempito.
Lo sentiamo ripetere da qualche decennio. Anche in questi giorni non manca chi lo snoccioli come una specie di mantra.

Se ciò è vero a livello generale, qui in Italia, si direbbe che ci troviamo in una sorta di universo parallelo.

In cui le leggi fisiche sono assai meno certe. E soggette a eccezioni, sospensioni ecc.
Osservando, non senza malinconia, il quadro politico nostrano la cosa più eclatante, al netto delle facezie quotidiane che ci dispensano “quelli del cambiamento”, è il buco o, per meglio dire, la voragine aperta che ne caratterizza il paesaggio.

Un’intera area elettorale resta totalmente priva di rappresentanza. E, quindi, di presidio politico. Il vuoto, per l’appunto.

Per semplificare potremmo definirla “moderatamente progressista”.
Quella che nella prima repubblica si riconosceva in diverse componenti della DC, nel P.S.I. craxiano, e negli altri partiti minori che componevano l’alleanza pentapartita (pri, pli, psdi).
E che, nella seconda, votò in massa per forza italia.
A distanza di 25 anni è un blocco elettorale che, inevitabilmente, ha subito delle trasformazioni. Ma solo in parte ha patito la deriva progressivamente destrorsa che ha accompagnato il declino di Forza Italia.

Percentualmente non sono in molti i “progressisti moderati” che si sono trasformati in sovranisti, iperstatalisti, giustizialisti e xenofobi ovvero il crogiuolo sottoculturale (e prepolitico) che connota il centrodestra a trazione salviniana.

La stragrande maggioranza si è autoconfinata nell’astensione.
Di fatto si trova nella condizione di “non sapere per chi votare”.
Incombono le elezioni europee. E nei conversari di quanti non fanno il tifo per il capitano o cinque stelle, la frase più ricorrente è proprio quella “ma per chi cazzo votiamo?!”.
Una situazione non del tutto inedita.
Nel biennio 92/93 la domanda era, del pari, ricorrente. E con un surplus di autentica angoscia.
Ma sulla politica italiana era appena caduta una bomba atomica. E ci si trovava in pieno fall out nucleare.
In campo erano rimasti gli eredi del p.c.i. berlingueriano, increduli del coup de teatre giudiziario che, da una prospettiva di declino irreversibile, gli stava per regalare una vittoria (con prospettive egemoniche) che pareva ineluttabile, considerato lo sterminio degli eserciti avversari avvenuto per mano delle procure.
C’era poi la Lega bossiana, fortissima nelle aree settentrionali.
E il fantasma di quello che era stato, fino a poco prima, il partito di maggioranza per eccellenza, con un segretario (Martinazzoli) che più che a leader, si atteggiava ad impresario di pompe funebri, pensosamente intento a celebrarne le esequie. In quanti eravamo a chiederci “ma per chi cazzo votiamo?”.
Poi arriva il gennaio 94. E tutto cambia.

Un vuoto durato, dunque, un po’ meno di un paio d’anni.

Un record che, oggi, appare già superato. L’aprirsi del nostro attuale e perdurante “vuoto” va ricondotto a qualche tempo prima.
Ma, convenzionalmente, possiamo fissarne la data al 4 dicembre 2016.
La debacle renziana al noto referendum costituzionale possiamo considerarla uno spartiacque.
Checchè se ne pensi dell’ex goledn boy di Rignano, gli va riconosciuto di essere stato portatore di una linea strategica che metteva nel mirino quell’area elettorale proponendosi di cannibalizzare un ampia quota del partito che gli era (o gli era stato) di riferimento; Forza Italia.
Una strategia, poi, condotta in maniera contraddittoria, solipsistica e, per molti versi, maldestra.
Ma, come si ricorderà, nella breve età dell’oro renziana erano in molti a prospettarsi l’ex sindaco di Firenze come “nuovo Berlusconi”.
Il famoso “moriremo renziani”, pressoché, un luogo comune. E’ andata come è andata. E l’autoaffondamento della corrazzata condotta dal tosco nocchiero ha prodotto un gorgo mostruoso. In cui, tra delusione e sconcerto, sono stati risucchiati non solo quelli che erano stati gli elettori di Matteo Renzi.
Ma anche chi, pur non votandolo, non guardava con ostilità al suo progetto vedendolo, comunque, come un fattore stabilizzante, nel breve, e, nel medio lungo, come l’humus in cui far germogliare altre dinamiche politiche.

Da allora quegli elettori sono anime perse.

Senza l’angoscia dei primi 90, il sentimento regnante è, oggi, la frustrazione.
Che trova sfogo nell’impotente invettiva contro le nullità oligofreniche assurte a incredibili ruoli di governo.
Nulla di più depressivo..

L’attuale corso del PD marca, se possibile, ancora di più il perimetro di quell’area.

Non che, dopo il disastro delle politiche 2018 e i patetici contorcimenti interni seguitine, ci fosse da aspettarsi granchè.
Ma l’elezione di Zingaretti, figlio purissimo della “ditta” tardoberlingueriana, ha fatto calare una vera e propria lapide marmorea su qualsiasi ipotesi di fuoriuscita del PD dal suo recinto identitario. Ridiventato, peraltro, quello del vecchio pds.
La strategia del segretario, in tal senso, è chiara; recuperare quanto si è disperso a sinistra.
Il che ha una sua logica.
Ma è ovvio che preclude ogni possibile attrattività per chi non ha e non vuole aver nulla a che spartire con quella storia.
L’effimera parabola di Calenda mette, infine, la ciliegina sulla torta. Chi aveva sperato in un suo ruolo “rigeneratore” ha nuove ragioni per cullarsi nella depressione, vedendo che, cotanta ambizione, alla fine è approdata a un seggio alle europee.

Un vuoto che non si riempie.

Praterie elettorali che nessuno si cimenta ad occupare.
E, paradosso dei paradossi, in un sistema proporzionale che, invece, dovrebbe promuovere iniziative in quel campo.
Oltre vent’anni di maggioritario trascorsi con il tormentone di improbabili creazioni di forze politiche terziste.
E ora, che non si è più schiacciati nella logica “o di qua o di là”, tutto tace.
A centrodestra l’unico dibattito è se trasformarsi in una formazione dichiaratamente ascara del Salvinismo (Toti) o tirare a campare sino che i numeri (in un asticella che oscilla sopra e sotto il 10%) la manterranno determinante nelle amministrazioni locali. Di andare a prendersi gli elettori che non vogliono saperne di “bacioni”, “ruspe”, “pacchie” manco a parlarne. Eppure, percentualmente, si tratta di un numero senz’altro a doppia cifra.
Questa, all’alba di aprile e a meno di un mese dalle europee, è la vera questione politica irrisolta.

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